La maggior parte delle volte in cui mi capita di andare a
vedere un film tratto da un libro, rimango sempre un po’ delusa ed
immancabilmente mi viene da esclamare: “È molto più bello il libro!”. Riflettendoci
questa frase per qualsiasi lettore è un’ovvietà perché il libro trasmette più
emozioni, il piacere della storia è prolungato dalla lunghezza delle pagine e
poi perché si possono immaginare liberamente le fattezze dei personaggi, i
luoghi, le ambientazioni etc. etc. Tuttavia questa frase alcune volte implica
anche un pregiudizio da parte del lettore il quale per tutta la durata del film
non fa altro che ripeterla perdendo tutto il piacere che deriva dalla visione.
Questo tipo di atteggiamento (lo dico da lettrice accanita) mi infastidisce… io
non sono assolutamente un’esperta cinematografica ma mi è facile comprendere
come in quest’arte visuale non ci sia da tenere in considerazione solo la
storia che viene raccontata. Infatti come nei libri conta la scrittura, la
struttura narrativa, la tecnica dell’autore ed il suo pensiero, allo stesso
modo esistono altri fattori che rendono apprezzabile ed ammirevole un film come
l’interpretazione dei personaggi, le inquadrature, la scelta del set, la
sceneggiatura, le ambientazioni e chissà quanti altri elementi ancora che non
conosco o che non riesco a percepire da semplice spettatrice! Dunque ho deciso
di lanciare una nuova rubrica in cui mi propongo di riuscire a non essere
troppo critica nei confronti di un film tratto da un libro, cercando di trovare
degli aspetti positivi da entrambe le fazioni! L’osteria
del Caffellatte di tanto in tanto organizzerà serate cinefile e giacché si
tenta di unire queste due arti, verrà idealmente servito il tè Genmaicha una
miscela di tè verde e riso tostato che unisce il gusto classico del tè a quello
sfizioso dei pop corn. Non mi resta che cominciare l’impresa!
Questa rubrica comincia da una mia lettura recente “Le nostre anime di notte” di Kent Haruf… ho letto prima il libro e poi ho visto il film
su Netflix con mia sorella. Tra i due esiste un elemento comune ossia il ritmo
è scandito da un tempo calmo perché le vicende si sviluppano in maniera lenta.
In effetti, quando in una storia ci sono protagonisti anziani, c’è da aspettarsi
questo tipo di cadenza che è sinonimo della voglia di voler avere più tempo da
vivere per arrivare alla fine il più tardi possibile. Sta di fatto che leggendo
il libro si fa un po' di fatica ad andare avanti nonostante la brevità del
racconto; guardando il film la situazione non migliora: vi basti sapere che mia
sorella si è parecchio distratta durante la visione ma è comunque riuscita a
seguire la storia senza perdere nulla di fondamentale.
Le
differenze invece sono molte… mentre il film ha un clima più disteso supportato
anche dal lieto fine, nel libro invece permane un altro tipo di sentimento
molto più malinconico e triste. Haruf lo ha scritto durante la malattia che ha
causato la sua morte: questo dato influenza moltissimo il tipo di scrittura
perché sembra che il tempo non basti più e che l’autore compia una gara con
esso affinché possa terminare la sua ultima opera. Infatti, come è specificato
dalle note del traduttore, ci sono molte imprecisioni del testo volutamente
lasciate per trasmettere la concitazione dello scrittore. Questo impeto nel
libro si percepisce nella figura di Addie che ha voglia di recuperare il tempo
sprecato durante la sua vita, e per questo motivo nasce la relazione con Luis
il quale, invece, appare ormai abbattuto e sopraffatto dagli eventi. Queste
sfumature dei personaggi nel film non esistono del tutto, le ho percepite in parte
solo nella figura di Addie che esprime il bisogno di realizzare qualcosa prima
che sia tardi. Luis nel film appare molto più propositivo soprattutto verso la
fine, cosa che nel libro mi è sembrata del tutto inesistente.
"No, non ancora, rispose Addie. Amo questo mondo fisico. Amo questa vita insieme a te. E il vento e la campagna. Il cortile, la ghiaia sul vialetto. L'erba. Le notti fresche. Stare al letto al buio a parlare con te."
Gli
intenti sono diversi perché l’autore alla fine comunica una sorta di resa,
meglio ancora adattamento alle circostanze della vita, mentre nel film si
compie una scelta, secondo me, più romanzata e a lieto fine, che molto
sinceramente mi aspettavo anche nel libro. Una
cosa che mi è particolarmente piaciuta del film è l’ambientazione perché si
vede realizzata l’edificazione della cittadina fittizia di Holt in cui Haruf
ambienta tutti i suoi romanzi: è così come l’avevo immaginata durante la
lettura ossia case basse, vicini che scrutano dalle finestre, portici, vialetti,
campi sconfinati, piccole tavole calde, il minimarket e infiniti silenzi.
In
conclusione posso dire che mi sono piaciute entrambe le versioni, non riesco a
scegliere tra le due perché come dicevo prima hanno intenzioni diverse e quindi,
il film può soddisfare la voglia di conoscere una storia romantica senza fine,
il libro invece impone una riflessione sul tempo che si ha a disposizione per
tutta la vita: anche quando si sente che essa sta per terminare può essere
utilizzato in maniera prolifica per sé stessi o per gli altri.
BUONA LETTURA E BUONA VISIONE…. MARTY.
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